Pensi di essere un esperto di vini?
Mettiti alla prova con una degustazione alla cieca...
Se ti senti un grande esperto di vino e pensi che non ti rimanga molto da imparare in questo campo, riporta il tuo ego sul pianeta Terra facendo (anche da solo e a porte chiuse se preferisci) una bella degustazione alla cieca. Non c’è nulla di più salutare a volte di una ricca e volontaria bastonata sulle nostre marmoree convinzioni, quindi ecco il mio suggerimento: consegna a qualcuno di tua fiducia un budget per l’acquisto di un certo numero di bottiglie e dì a questa persona di avvolgerle poi in carta di alluminio prima di consegnartele. Dille anche di numerare le diverse bottiglie con un grosso pennarello indelebile. Se sei pronto per la degustazione, fatti stappare le bottiglie: spesso la capsula o il tappo riportano indicazioni sul vino e/o sul suo produttore e tu non devi essere influenzato nella tua degustazione da nessun tipo di informazione. Procurati dei bicchieri uguali, versa due dita di ogni vino nei bicchieri e buon divertimento. Il budget per questo acquisto/esperimento lo decidi tu in base alle tue possibilità: diciamo che ti servono 5 o 6 bottiglie diverse, quindi si partirebbe da una cifra minima di almeno 25/30 euro. Anche la tipologia della degustazione la decidi tu: li vuoi tutti bianchi? Tutti rossi? Tutti del nord est? Tutti siciliani? Scelta tua. Devi solo passare le tue istruzioni a chi effettuerà per te l’acquisto. Ovvio che se vuoi fare una degustazione di 6 Baroli, i 25/30 euro non ti basteranno nemmeno per una sola bottiglia. Degusta e concentrati sui vini. Prendi appunti sui diversi vini che degusti, annotandone le principali caratteristiche, scrivendo quale vino ti piace di più e perché, o tenta di individuare quale vino è secondo te il più costoso. Puoi anche volontariamente tenderti una trappola (non pensavi di essere un esperto? Allora non c’è problema, no?), dicendo a chi acquista il vino, ad esempio, di comprare 5 bottiglie di Cabernet Sauvignon e una di Merlot, oppure 5 Merlot toscani e uno siciliano, e rendere la cosa più interessante. La degustazione alla cieca è una delle pratiche più delicate e interessanti per chi si occupa di vino: obbliga a concentrarsi su ciò che sta nel bicchiere, senza venire influenzati da nient’altro, come il prezzo del vino, il suo nome o il nome del suo produttore. E fidati, anche alle degustazioni di professionisti se ne vedono delle belle. Nel 1976 a Parigi si tenne una famosa degustazione alla cieca, nella quale si confrontarono vini della zona di Bordeaux a vini californiani prodotti con le stesse varietà d’uva. I degustatori presenti (francesi) valutarono i vini e il risultato fu che i californiani piacquero più dei francesi. Una volta scoperte le bottiglie, almeno uno dei degustatori insistette per riavere le sue note di degustazione, e più di uno disse che comunque i francesi erano meglio dei californiani, smentendo così le sue proprie note. Io stesso ho sperimentato sulla mia pelle quanto sia complicata la degustazione alla cieca. Ad esempio, durante una degustazione importante (che era un esame…) ho assaggiato sei vini bianchi dei quali non sapevo assolutamente nulla. Su uno di questi caddi clamorosamente. Era chiaramente un vino fatto con Sauvignon Blanc, e lo scrissi. Era austero, fino ad essere leggermente scontroso, con un’acidità notevole. Il carattere era per me inequivocabilmente nord europeo, probabilmente francese, e lo scrissi. La complessità però lasciava a desiderare, era un vino parecchio monocorde, che tutto poteva essere fuorché un Sancerre, e lo scrissi.
Altro che ghiaccio, la temperatura ad hoc si fa con lo "scettro".
E per il gusto perfetto...
Quando penso al periodo della mia adolescenza, una delle cose che ricordo più distintamente e con nostalgia, è la settimanale lettura di "Cuore" di Michele Serra. Ricordo le trascrizioni delle telefonate intercettate dei primi cellulari, che all'epoca avevano un costo proibitivo, ricordo una rubrica per la quale i lettori segnalavano (e spedivano fotografie di) insegne di negozi ridicole, e ricordo anche un'altra rubrica: quella di gadgets e accessori praticamente inutili ma in compenso carissimi. Questa rubrica si chiamava "Mai più senza". Wine sceptre Mi è tornata in mente quando, qualche giorno fa, girovagando in rete su siti specializzati in cerca di novità, ho visto un articolo che riguarda un accessorio per il vino, chiamato “Wine Sceptre”. Lo “scettro” ha, come il nome lascerebbe intuire, la forma di uno dei simboli dell’autorità monarchica, ma in dimensioni ridotte, tanto ridotte che si può inserire nel collo di una bottiglia di vino. A cosa serve? Beh, se la bottiglia nel quale lo inserite è stata precedentemente raffreddata, e se lo “scettro” è stato precedentemente tenuto in freezer, il vino che verserete dalla bottiglia nei bicchieri sarà servito sempre a temperatura ideale, fino al termine della bottiglia stessa, e senza usare un secchiello per il ghiaccio. A quanto pare questo oggetto è stato ideato da un ristoratore europeo, che si arrovellava il cervello sul fatto che le bottiglie di vino bianco, tolte dal frigo e messe nel secchiello del ghiaccio si raffreddavano troppo, compromettendo così il loro apprezzamento da parte dei clienti. Cosa vera: un vino servito troppo freddo è impossibile da degustare in maniera appropriata. Poi la scelta è tua: puoi comprare lo “scettro” alla modica cifra di 135 dollari al pezzo (per la versione base, senza incisioni particolari o preziosi cristalli)…Oppure usare un secchiello del ghiaccio nel quale metterai tanta acqua e poco ghiaccio. Tutto ciò vale se stiamo parlando di una bevuta “tete-a-tete”, durante la quale, versando in soli due bicchieri, il vino permane a lungo nella bottiglia. Se invece consideriamo una cena o un aperitivo, con 4 o 6 commensali, beh, il vino rimarrà talmente poco nella bottiglia che anche un secchiello del ghiaccio è superfluo. Stimolato dallo “scettro” mi sono messo volontariamente alla ricerca di altri “mai più senza”, ed in pochi minuti ho raccolto un intero campionario. Vuoi un’altra perla? Ti accontento subito. Hai mai desiderato che il tuo bel bicchiere di orgoglioso Barolo assomigliasse ad un vellutatissimo Merlot? Hai risposto si? E allora perché non hai comprato direttamente un Merlot? Wine clip Se alla domanda di cui sopra hai risposto “Si ma non l’ho mai detto per evitare di essere preso per ignorante”, allora questo è l’accessorio per te: si chiama Wine Clip ed è essenzialmente una pinza di plastica che contiene al suo interno sei potenti magneti. Le due ganasce della pinza hanno forma semicircolare ed una volta divaricate si possono “accomodare” sul collo di una bottiglia di vino. Il produttore dell’accrocchio sostiene che il vino, passando attraverso il collo della bottiglia quando lo si versa è sottoposto ad un potente campo magnetico, che fa si che il suo bouquet sia più pronunciato e i suoi tannini siano più “morbidi”. Il produttore sostiene anche che si possono dunque acquistare bottiglie di vino non particolarmente buone risparmiando denaro, e gustarle come se in realtà si fosse acquistato chissà che. Premetto: io questo Wine Clip non l’ho mai provato, ma istintivamente mi sono venuti in mente i comici Trettrè. Ho voluto investigare di più, ed ho trovato una valutazione indipendente dell’oggetto in questione su un sito interessante. Se ti incuriosisce puoi leggere (in inglese) tutto l’articolo, altrimenti puoi scorrere fino al fondo per vedere una fotografia che vede impiegato l’oggetto in un suo utilizzo alternativo e molto più intelligente.
Meglio il vino imbottigliato o quello "del contadino".
Dipende dalla compagnia...
E’ inevitabile che lavorando nel mondo del vino si diventi in famiglia o fra amici il punto di riferimento, quello a cui chiedere un parere perché “ne sa, è il suo lavoro”. Le opinioni richieste spaziano fra gli argomenti più disparati: si va dalla classica domanda che denota una certa tenera ingenuità, ma che non ha una risposta (tipo “ Qual è il vino più buono del mondo?”) ai pareri professionali su partite di produzioni casalinghe, che in Italia non sono cosa rara. Quest’ultima accezione in genere mi interessa moltissimo: io mi sono avvicinato al vino grazie ai molti brindisi fatti con le produzioni casalinghe di mio zio Arturo, in Sicilia. E’ stato proprio lui che durante le vacanze estive e fin dalla mia infanzia, “giocando”, brindava con me a tavola: lui con un bicchiere di vino, io con dell’acqua colorata (una parte vino/ dieci acqua). Com’era il suo vino? Per me molto buono. Per anni è stato il vino che più mi piaceva: molto meglio delle bottiglie che comprava mio padre durante il resto dell’anno a Torino. Avendo poi con l’età ampliato il mio “bagaglio di assaggi”, ho dovuto per forza di cose cambiare idea: una degustazione critica del vino dello zio fatta oggi darebbe risultati impietosi, eppure a me il suo vinello piace ancora molto (e nonostante tutto) per una sana bevuta acritica.
Zio Arturo, come molti produttori casalinghi, è sempre stato un feroce oppositore del “chimico”, della “ pasticchetta ” che si aggiunge al vino per non farlo andare a male prima che quello dell’anno dopo sia pronto. “Il mio vino è tutta natura”, ripeteva spesso con orgoglio, ed era vero: è per questo che buona parte delle bottiglie “marsalavano” molto in fretta. Tutt’altro che scoraggiato dalla cosa, lo zio beveva queste bottiglie come quasi fossero migliori delle altre, e così anche noi. L’ultima volta che sono stato in Sicilia (estate 2003) aveva ancora bottiglie riempite quando è nato il suo figlio più “piccolo”, oggi ultraquarantenne. Ovviamente è vino ossidato, “Marsala” come dice lui, ma comunque stranamente piacevole da bere. Difficile fargli capire perché un Barolo di quarant’anni, di una buona annata e ben conservato abbia magari oggi un certo valore e il suo vino invece no .Quest’approccio ingenuo e genuino al vino lo preferisco di gran lunga al suo contrario, ovvero ad un atteggiamento sicuramente più avveduto, ma anche più calcolato e cinico. Questo è l’atteggiamento che secondo me porta ai casi limite, quelli da scandalo, spiattellati in prima pagina sui giornali: vedi quello del metanolo del 1986, o quello più recente di “vini” fatti praticamente di acqua e zucchero. La domanda, in un paese di grande produzione vinicola come il nostro è annosa: è meglio il vino del contadino o quello imbottigliato? La risposta facile è che è meglio quello che ti piacerebbe bere in quel momento (esempio: se dovessi dividere una bottiglia con zio Arturo, credo che avrei molta più soddisfazione stappando un suo “Marsala” che un Haut Brion 1990).
Articolando invece un po’ di più, bisogna sfatare il mito che il vino imbottigliato sia senz’altro “più chimico” di quello fatto in casa. A volte, la famosa “pasticchetta” che mio zio non aggiungeva, finisce per risultare in vini con una quantità di composti solforati di molto superiore a quella dei vini in commercio: nel migliore dei casi il vino puzzerà, nel peggiore potrebbe anche fare male. Da sfatare anche è il mito contrario, ovvero che il vino del contadino sia sicuramente meno buono di quello imbottigliato: le generalizzazioni lasciano sempre il tempo che trovano. Un vino che ti consiglierei senz’altro di non bere è quello che farò io quest’anno, con l’uva delle viti del mio orto: non sono per niente sicuro che risulterà in qualche cosa di potabile, ma ti farò sapere... Se sopravvissero all’assaggio.
I vini per i primi caldi? I bistrattati rosati.
Ecco quali scegliere
Fino a due settimane fa dovevo indossare il giaccone per accompagnare mia figlia all’asilo. Oggi sto per uscire di casa in pantaloncini corti e maglietta: alle otto del mattino ci sono già 20 gradi e la giornata promette caldo, tanto caldo. Non so cosa sia successo al clima, ma ho veramente potuto vedere un cambiamento dalla notte al giorno. Le piante nel mio orto hanno ingranato la quarta: le zucchine in particolare sembrano crescere a vista d’occhio. Le piante si allungano, i vestiti si accorciano e i bicchieri? Si svuotano! Pare ormai assodato che con i primi caldi i consumi di vino rallentino e quelli di birra s’impennino, ma secondo me dipende tutto dallo scegliere il giusto vino. Anche a me piacciono i rossi corposi e strutturati, ma non mi sognerei mai di stappare un Barolo durante un barbecue pomeridiano in giardino: c’è il momento giusto per tutto. Adesso è tempo di alleggerire sulla struttura e sulla corposità (forse più sulla prima che sulla seconda) ma senza perdere il piacere del frutto, dell’acidità rinfrescante e pulente, o di un carattere genuino e schietto. Quali sono dunque i vini per i primi caldi? Io dico che sono quelli che il 99% di noi non sognerebbe di comprare nel pieno delle sue facoltà mentali: i rosati. Quella dei rosati è una categoria da sempre bistrattata, spesso a ragione. Il problema d’immagine di questa categoria è secondo me legato a due cause principali: la prima è che il consumatore non ha mai capito il perchè esista una tipologia di vino che, in fondo, non è “né carne e né pesce”. La seconda è che ogni qual volta il consumatore si sia avventurato ad assaggiare un vino rosato, la qualità mediocre di questo non ha fatto altro che rafforzare nella sua mente l’impressione di cui sopra. Ma se questo consumatore assaggiasse un buon rosato, collocato nel giusto contesto, si troverebbe a dover rivedere le sue convinzioni maturate in anni di “degustazioni” (o “bevute” che dir si voglia). Quale contesto più appropriato di quello di “usare” un buon rosato come il nostro personale Caronte, per traghettarci dai grandi rossi invernali ai freschi e dissetanti bianchi dell’estate? La grande discriminante del mondo dei rosati è secondo me l’intenzionalità della loro produzione. Spesso infatti, un vino rosato non è altro che il sottoprodotto della lavorazione di un buon vino rosso, frutto di una tecnica chiamata “salasso”. Come penso saprai, il colore di un vino rosso è conferito a questo dalle bucce dell’uva (ovviamente rossa) durante la macerazione/fermentazione. Immagina ora di pressare 100 kg di uva rossa e di ottenerne 50 litri di mosto. Dal recipiente che contiene i 50 litri più le bucce, dopo una notte di macerazione/fermentazione tu decidi di togliere (salassare) 20 litri di mosto. Questo mosto non sarà più incolore come quando era appena pressato, ma sarà ora di una delicata tonalità rosa. Il mosto che continuerà a fermentare con le bucce estrarrà da queste molto più colore diventando un rosso molto carico e (quasi sicuramente) corposo. Facendo invece finire la fermentazione al mosto rosato sottratto otterrai... Bravo, un vino rosato, ma che non è “intenzionale” e che sarà quasi certamente carente sotto diversi aspetti. Uno dei più comuni è l’alcolicità. Un’uva maturata per produrre un grande vino rosso, avrà quasi certamente un’alto tenore zuccherino, che si tradurrà poi in alcool. Se da quest’uva tu ricavi un vino rosato, questo non avrà la struttura sufficiente per bilanciare la grande alcolicità, ed il vino in bocca “brucerà” un po’. Fin qui la parte tecnica. Quali sono dunque i vini rosati da provare? Te ne consiglio qualcuno. Parto dal profondo nord, con un grande Lagrein Ketzer, come quello di Muri Gries o quello “Vendemmia Tardiva” di Josephus Mayr. Viaggiando verso sud trovo in Lombardia uno dei miei rosati preferiti, il “Molmenti” dell’azienda Costaripa : chiudi gli occhi ed avrai l’impressione di bere un grande rosso dalla freschezza non comune. In Abruzzo l’uva Montepulciano la fa da padrona, con dei Cerasuolo da brivido, come il “Cerano” di Pietrantonj o il “Vigna Corvino” di Contesa. Poi si arriva in Puglia, altra grande terra di rosati: prova l’Alezio Rosato “Mijere” di Michele Calò o il Salento Rosato “Saturnino” delle Tenute Rubino.
Ma chi l'ha detto che il vino in Grecia non è un granché?
Prendi il Kerastis, una via di mezzo fra un Moscato e un Gewurztraminer...
Qualche tempo fa ti ho raccontato di una mia fulminea infatuazione per un’uva greca chiamata Assyrtiko. Ho paura che nei mesi trascorsi, l’infatuazione sia diventata innamoramento, e come ogni buon innamorato che si rispetti sono qui a porre omaggio a quest’uva e a tutta la sua famiglia. In questi giorni a Londra si è svolta la London International Wine Fair, che è stata per me l’occasione perfetta per “presentarmi in famiglia”. Una delle visite di rigore era dunque quella al padiglione Wines From Greece, dove ho per mia fortuna scorto una vecchia conoscenza. Konstantinos Lazarakis è un Master of Wine incontrato da me diverse volte in occasione di alcune degustazioni negli Stati Uniti, ed in questi giorni di fiera ha letteralmente “tenuto banco” allo stand istituzionale del suo Paese. Quale cicerone migliore per muovermi su un terreno a me completamente sconosciuto? Gli parlo del mio amore per l’Assyrtiko e gli chiedo di accompagnarmi attaverso una degustazione di quattro vini bianchi e quattro rossi a sua scelta. Ecco che cosa mi è piaciuto di più. Kostas comincia servendomi un assaggio del Kerastis Moschofilero 2007, un bianco prodotto nella regione del Peloponneso dall’azienda Likos Winery. Kerastis è il nome del vino, mentre Moschofilero è la varietà d’uva usata per la sua produzione. Credimi sulla parola: penso all’estate che verrà e vorrei averne un paio di casse da 12 in cantina. A livello aromatico è una via di mezzo fra un Moscato ed un Gewurztraminer, ma senza quella eccessiva aromaticità che spesso appesantisce i Gewurztraminer di casa nostra. In bocca poi è leggero, ben asciutto, perfettamente equilibrato e con una freschezza che mette allegria. Passiamo ora al bianco Biblia Chora 2007, prodotto dall’omonima cantina della Macedonia orientale. É questo un vino prodotto con un 60% di Sauvignon Blanc e con il rimanente 40% di Assyrtiko. Il naso è decisamente a favore della prima uva, ma mostra al contempo una grassezza che credo di poter attribuire alla mia uva greca preferita. In bocca, un leggero residuo di anidride carbonica ed una davvero rimarchevole sapidità lo rendono lungo e dissetante: un gran bicchiere di vino. Finalmente Kostas mi serve un Assyrtiko in purezza, di una cantina che non avevo mai assaggiato prima, la San...Torini Winery (non è un’errore di battitura). L’annata è la 2006 ed il vino al naso da segni di una certa evoluzione, con note resinose insieme ad accenni “lanosi”, quasi da Chenin Blanc. In bocca il vino è di una vitalità travolgente, persistente e pieno, ed ha confermato la mia rinnovata passione per questa varietà. Fra i rossi ho molto apprezzato quelli da alcune varietà: l’Agiorgitiko, che da rossi morbidi e voluttuosi, ed il Xinomavro, che sembra avere più di un tratto in comune con il nostro Nebbiolo. Ma la varietà a bacca rossa che mi ha steso al tappeto si chiama Mavrodaphne, usata sia per la produzione di vini secchi che per quella di vini dolci. Al termine della mia degustazione allo stand istituzionale, dopo i rossi ho assaggiato il Mavrodaphne di Patrasso Gran Riserva 1979 dell’azienda Achaia Clauss: un nettare sciropposo che sapeva di fichi secchi, di prugne secche, di mandorle, di caffelatte, di caramello, di quelle palline di zucchero alla menta e di tanto altro ancora. L’acidità teneva testa all’immensa morbidezza data da zucchero e glicerina in un equilibrio perfetto. Un vino da sogno che mi ha spinto ad andare allo stand dell’azienda, dove il signor Tony Kurek mi ha fatto degustare il resto della produzione. Ultimo ma non ultimo: tutti i vini menzionati hanno un rapporto qualità/prezzo da applauso a scena aperta. Cosa potrei aggiungere? Io quest’estate andrò in vacanza in Grecia, e la degustazione di cui sopra mi sta facendo desiderare il viaggio più di quanto già non lo desiderassi prima. Se ci andrai anche tu avrai certamente di che divertirti anche a tavola, altrimenti...Ti consiglio caldamente di mettere il viaggio in cantiere.
Che sorpresa i vini bianchi della Val d'Aosta:
dallo Chardonnay a Prié Blanc...
Qualcuno ti passa un calice di bianco. Tu non sai di cosa si tratta e avvicini il naso al bicchiere per cominciare ad “investigare”. Il profumo ti solletica la fantasia, e ti vengono in mente dapprima fiori freschi e frutti croccanti, poi note più “articolate” di minerali, addolcite da una leggera e centrata carezza di vaniglia. Il profumo ti fa venire l’acquolina in bocca, e per placarla bevi il primo sorso. In bocca il vino ha una consistenza morbida e vellutata, senza spigoli particolari, ma con una freschezza acidula che ti invita (anzi, per dire la verità ti obbliga) a prenderne un altro sorso, ancor prima che il sapore abbia dato il primo segno di affievolimento. Il vino ti piace tanto: è uno Chardonnay (ti dicono), ma tu pensi che non ha nulla dei banali Chardonnay che ti capita di assaggiare durante l’anno. Questo è davvero uno Chardonnay coi fiocchi. Chiedi il prezzo: è altino, ma non esagerato per la qualità che offre, così pensi di comprarne 12 bottiglie per godertele con i tuoi amici durante qualche cena ma…La brutta notizia: non sei il primo a cui questo vino piace tanto, e quelli che l’hanno assaggiato prima di te se lo sono già comprato tutto. Non ti rimane che sperare di trovarlo in qualche enoteca ben fornita o in qualche bel ristorante della sua zona di origine, che è la meravigliosa Valle d’Aosta: tanto conosciuta per le sue piste da sci quanto sottovalutata dai più per quel che concerne la produzione vitivinicola. Lo Chardonnay in questione è il Cuvée Bois 2006 prodotto dall’azienda Les Cretes, nel paese di Aymavilles, una delle località a più alta vocazione vinicola della regione. Ma questo piccolo gioiello, in grado di farti fare pace con una varietà abusata come lo Chardonnay, non è stato l’unico mio colpo di fulmine con i bianchi valdostani. Che dire ad esempio del Nus Malvoisie 2007 dell’azienda La Crotta di Vegneron, con il suo carattere centrato e discreto, la sua freschezza (aiutata dalla sapidità e da un leggerissima petillance) e la sua pericolosa bevibilità. O del Petit Arvine 2006 dell’azienda La Source, con la sua caratteristica, austera grassezza arrotondata da un intelligente e calibrato residuo zuccherino.
Il bravissimo sommelier che ha guidato la mia degustazione allo stand regionale al Vinitaly dev’essersi accorto del mio crescente entusiasmo, perché con un fare navigato ed una perfetta scelta dei tempi mi ha assestato il colpo di grazia versando il Prié Blanc “Chaudelune” 2005 prodotto dalla Cave du Vin Blanc. Questo vino meraviglioso mi ha intrigato con il suo particolarissimo e cangiante bouquet: prima origano secco a mazzi, poi funghi freschi, poi marroni, poi albicocche secche, insomma una vera goduria. In bocca è setoso, complesso e dolce ma mai stucchevole, perché lo zucchero è ben bilanciato dall’acidità e da una piacevole nota asciutto/amarognola che ho personalmente ho attribuito al contatto del vino con le sue fecce fini. Ti ho incuriosito a sufficienza? Allora mettiti alla ricerca di qualche buon vino valdostano: dopo averli provati ti meraviglierai solo di non averli conosciuti prima.
Il Vinitaly si è fatto in quattro...
per rendere la vita difficile a operatori e appassionati
Una volta, fino a non tanto tempo fa, riuscivo ancora ad aspettare il mese di aprile con un certo entusiasmo: era il mese del Vinitaly, quando avrei scoperto qualche vino che fino ad allora non conoscevo, e quando avrei rivisto amici e produttori di vino ai quali tenevo (e tengo) molto. Quella del Vinitaly è sempre stata una settimana piuttosto impegnativa, ma ora si è raggiunto e superato ogni limite: sono tornato da Verona da tre giorni e ancora sbadiglio di sonno come una fornace. Sarà l’età che avanza? Può essere, ma sicuramente i calendari “bruciati” dal mio primo Vinitaly ad ora non sono l’unica causa. All’origine era il Vinitaly dicevamo, ma ora nei cinque giorni veronesi le manifestazioni sono diventate addirittura quattro. Quelli di Vini Veri 5 anni or sono offrivano l’unica contro-manifestazione. Poi hanno dato ospitalità ai biodinamici di Triple A, che dall’anno scorso presentano la loro manifestazione indipendente. Da quest’anno poi, c’è la novità di Vin Natur, che “fortunatamente” completa il quadro. Si dice che tre sia il numero perfetto, ma qui siamo arrivati addirittura a quattro! Signori organizzatori, perché volete costringere chi vuole degustare alcuni dei produttori partecipanti alle vostre manifestazioni a macinare chilometri e stanchezza per cinque giorni? Non so quali siano le ragioni che vi stanno spingendo verso questa simbolica “scissione del nucleo” ma vi prego di ripensarci e di non prendervela con noi: che vi abbiamo fatto di male? Quanto sarebbe bello se Vini Veri, Triple A e Vin Natur potessero essere sotto lo stesso tetto, magari anche separate fra loro da muri corazzati, ma a pochi compassionevoli passi una dall’altra! Senza contare, signori organizzatori, che comunque state costringendo alcuni vostri clienti produttori a sforzi economici e logistici non indifferenti, visto che in diversi (mossi a umana pietà) hanno presenziato a più di una manifestazione, lasciando qui un cognato e la una nonna a presidiare lo stand.
Falso Brunello di Montalcino pugliese?
Serve un'inchiesta "bicchieri puliti"
In questi giorni a cavallo della Pasqua non c’è stata pace per i prodotti alimentari made in Italy. Sono esplosi due casi che, seppur molto diversi fra loro, sono destinati ad avere ripercussioni serie sulle nostre esportazioni, e forse anche sulle nostre scelte. La mozzarella di bufala DOP è al centro dell’attenzione per una questione di inquinamento da diossina, che sembra essere il frutto di scellerate politiche sullo smaltimento dei rifiuti in Campania, troppo condizionate dagli interessi della malavita locale. Ma un altro macigno sembra stia per abbattersi su un “liquido” fiore all’occhiello della produzione nazionale: il Brunello di Montalcino. Il puntualissimo Franco Ziliani lo aveva segnalato sul suo blog il giorno di Venerdì Santo, e non è stato il solo: anche a livello internazionale se ne è cominciato a discutere, con toni che stanno fra il perplesso ed il seriamente preoccupato. Insomma: voci insistenti vorrebbero che alcune aziende di primissimo piano abbiano spacciato per Brunello di Montalcino un vino che veniva da tutt’altra zona: si parla della Puglia.
Al momento non è dato sapere i nomi delle aziende coinvolte, ma sicuramente saranno presto di dominio pubblico, quindi per saperne di più rimani sintonizzato. Succede spesso che si gridi allo scandalo nel mondo del vino, per gelosie fra produttori o per altri motivi, quindi questo tipo di “allarmi” sono sempre da prendere con le molle, ma questa volta la conferma che qualcosa non va viene proprio dal direttore del Consorzio di Tutela del Brunello, Stefano Campatelli. Il dottor Campatelli, intervistato da Ziliani, ha precisato che i problemi ci sono, ma non sono relativi a vini provenienti da altre regioni e imbottigliati come Brunello. Durante i controlli effettuati dal Consorzio – dice Campatelli – sono state rilevate irregolarità nei vigneti di alcune decine di aziende. Per quattro di queste, vista l’entità di quanto riscontrato, il Consorzio ha dovuto passare i risultati dei controlli alle autorità competenti. Spiego per le persone meno addentro: la legge dice che nei vigneti iscritti alla DOCG Brunello di Montalcino ci deve essere piantato solo il Sangiovese, ma pare che invece in alcuni di questi sia stato trovato un po’ di tutto, dal Merlot al Cabernet Sauvignon, fino ad arrivare addirittura allo Chardonnay e al Trebbiano (perché poi?). Ovviamente chiunque è da ritenersi innocente finché non viene provata la sua colpevolezza, quindi per ora è anche lecito pensare a possibili errori dei vivai dai quali questi produttori hanno acquistato le barbatelle (ovvero le giovani viti che vengono poi piantate nei vigneti): uno chiede Sangiovese e gli viene dato Merlot... E’ già successo in passato, quindi andiamoci piano con le accuse.
Certo è, che se venisse provata l’intenzionalità di questi produttori nell’”inquinare” il Brunello con altre uve al di fuori del Sangiovese, la cosa non dovrebbe finire a tarallucci e vino (come al solito). Siccome però la mia fiducia nel Sistema Italia è al momento pressoché nulla, pessimisticamente dico: portate solo i tarallucci, il vino c’è già. Molti sanno che ci sarebbe davvero bisogno di un'inchiesta “bicchieri puliti” in larga scala, per quanto inizialmente dolorosa questa potrà essere: impietosa, meticolosa e capillare, a coprire tutti gli aspetti della produzione vitivinicola. Gioverebbe ai molti produttori onesti, quelli che non cercano scorciatoie per fare il vino più “piacevole”, quindi credo che non si farà mai.
Sono fuori moda, ma non c'è nulla di meglio per digerire:
ecco perché amare gli amari...
Sono un ragazzo dai gusti semplici e per mangiare mi so adattare alle più svariate situazioni, dal panino fugace al ristorante stellato elegantissimo, ma se mi proponi un pasto a casa con amici, fatto di portate molteplici e molteplici bottiglie di vino, non so proprio dire di no, quindi mangio, bevo, me la godo e… stento a digerire. Non so che dirti, sarà l’età che avanza, ma a 20 anni ero capace di digerire anche i sassi ed ora che ho da poco bollato i 35 va un po’ meno bene. Se confronto la mia situazione al disarmante panorama di ulcere e coliti che vedo in giro mi posso considerare ancora un fortunatissimo, ma dopo un lauto pranzo mi riesce difficile rinunciare ad un buon digestivo. Sono un amante degli amari: quei liquori ottenuti dall’infusione (o dalla macerazione) di erbe che grazie alle loro proprietà accelerano il processo digestivo. Gli amari erano popolarissimi qualche decennio fa, ma oggi sembrano essere passati di moda per qualche motivo, forse proprio perché la loro immagine evoca tanto l’uomo italiano anni ’70 completo di borsello a tracolla. Tonico Digestivo Varnelli Ne esistono di moltissime gradazioni e tipologie, ma ormai sono arrivato a distinguere la categoria che preferisco e mi muovo all’interno di questa con una certa scioltezza.
Evito di bere (dopo un pasto) amari troppo alcolici, perché credo che un’alta gradazione in effetti possa rallentare la digestione invece di favorirla. Evito ancor di più gli “amari” che non sono per niente amari: ce ne sono alcuni che potranno dirsi liquori, ma certamente non amari, visto che il loro contenuto percentuale di zucchero è di poco inferiore a quello di un marron glacé. Scelgo, quando mi è possibile, prodotti artigianali o quasi, o comunque poco commerciali, e passo qui di seguito a darti una piccola lista dei miei favoriti, che trovo funzionare davvero come digestivi. Il mio non-plus-ultra è un amaro chiamato Tonico Digestivo Varnelli, caratterizzato da un palato equilibrato, giustamente aromatico e amarognolo, e da una gradazione alcolica benevola (credo sia intorno al 21%). Dopo il caffè, un bicchierino bevuto liscio e a temperatura ambiente (un digestivo ghiacciato è un po’ un controsenso) riesce sempre a liberarmi da quella sensazione di pesantezza e sonnolenza. E’ così buono che per golosità ne berrei molto di più, ma così facendo vanificherei la sua azione digestiva e (quasi sempre) mi trattengo. La storica casa Varnelli produce anche un altro amaro che rientra nella mia classifica, chiamato “Sibilla”. Qui la gradazione si fa un po’ più alta (34%), e il bicchierino si dovrebbe fare un po’ più basso… Al centro Italia i due amari di cui sopra sono facilmente reperibili, ma al Nord non è sempre così facile, così la mia scelta settentrionale è il Braulio (21%) anche nella sua versione Riserva Speciale (24,7%): qui il gusto è solo leggermente più dolce che nelle altre proposte, ma la nota amarognola della genziana e di altre erbe riesce a bilanciare lo zucchero perfettamente.
C’è poi un amaro “amaro” di facile reperibilità che in casa mia non manca mai, e nemmeno in casa dei miei amici più stretti, i quali tengono una bottiglia nella vetrina apposta per me. E’ il Petrus, e questo si che sa tanto di anni settanta. Petrus è un amaro serio, ma io trovo che la sua gradazione alcolica (45,8%) non sia il massimo per la digestione, così finisco per allungarlo un po’ con l’acqua, o al massimo con una soda. La digestione è assicurata, così come anche il primo istantaneo effetto: quello di una gradevole sensazione di fresco all’esofago. Provare per credere.
Sì ma non solo:nelle Langhe
alla scoperta di Barbera e Nebbiolo con salame e purè
La scorsa domenica, partendo in auto da Torino nella nebbia più fitta, sono finalmente andato a trovare un produttore che mi riproponevo di visitare da molto tempo. Lui si chiama Marco Parusso, ed insieme alla sorella Tiziana conduce l’azienda di famiglia situata fra Monforte d’Alba e Castiglione Falletto, nelle Langhe. Marco produce Barolo, è vero, ma limitarsi a parlare di quello sarebbe come scrivere una guida turistica di Roma e menzionare solo il Colosseo. Produce ad esempio due Langhe Bianco, entrambi da uve Sauvignon Blanc. Uno di questi è prodotto in stile più leggero e fresco, l’altro, il “Bricco Rovella”, da una selezione delle uve migliori, è più strutturato e più importante. Domenica non ho assaggiato i bianchi per ragioni di tempo, ma li assaggio tutti gli anni almeno a Verona e Merano, e sono mi stati utilissimi per capire meglio che tipo di produttore è Marco: è uno serio, che pensa moltissimo e che si chiede il perché delle cose. Ponendosi domande e trovando le risposte, Marco è sempre pronto a mettersi in discussione, senza nessuna paura di “smentire il se stesso” di qualche anno prima. E questo lo si nota nei vini. La degustazione che Marco mi aveva preparato domenica era piuttosto tecnica ed era incentrata sul Barolo: non entrerò nel dettaglio perché rischio di annoiarti, ma ti voglio dire almeno in due parole quel che ne ho pensato. Ho assaggiato una batteria di Barolo stappati in giorni differenti (in successione dal 5 al 24 febbraio, data della degustazione), vuotati di parte del vino e ritappati col loro sughero. Innanzitutto mi ha molto sorpreso il fatto che tutte le bottiglie erano tranquillamente bevibili, anche quella stappata 3 settimane prima. In secondo luogo sono stato colpito dal fatto che la bottiglia che mi è piaciuta di più non fosse quella stappata il giorno stesso o un paio di giorni prima, ma quella stappata ben 10 giorni prima! Marco non mi aveva anticipato nulla sulla degustazione, ma se lo avesse fatto mi sarebbe stato difficile credergli sulla parola. Prima di degustare i Barolo, ho assaggiato tre vini che mi hanno messo del giusto umore: due Barbera ed un Nebbiolo. Il primo, il Barbera d’Alba DOC “Ornati” 2006 era piacevolissimo e davvero beverino. Semplice ma molto equilibrato e di immediato impatto, lasciava gustare l’uva Barbera in tutta la sua fragranza senza però mai aggredire il palato con un’eccessiva acidità. Mi ha fatto desiderare un buon salame o una fetta di cotechino calda fumante su una cucchiaiata di morbido purè, ma non era ancora il momento di pensare al cibo… Il secondo vino, il Barbera d’Alba DOC Superiore 2005 è ottenuto da uve di piante più vecchie ed ha più ciccia e struttura, che però non gli viene data meramente dal passaggio in legno. Il legno aggiunge al frutto maturo una dolce nota speziata, senza mai coprirlo. Difficile confrontare i due Barbera: stilisticamente preferisco il primo, ma se dovessi accompagnare delle costolette d’agnello grigliate su carbone di legna e magari condite con un filo d’olio d’oliva al rosmarino, sceglierei senz’altro il Superiore. Il Langhe Nebbiolo DOC 2006 è invece uno di quei vini che berrei a bottiglie intere se solo non mi ubriacasse: di medio corpo, non particolarmente complesso, ma tanto fine ed elegante tanto da ricordarmi alcuni Pinot Nero di Borgogna. L’astringenza del tannino è presente ma magistralmente contenuta, e ad ogni sorso si distribuisce uniformemente sul palato: davvero un gran bel bere. Sono contento di essere finalmente riuscito ad andare da Marco, ma devo dire che ora sono ancora più curioso di assaggiare le sue nuove annate: fortunatamente a Verona manca poco!
Contro la malinconia invernale,
un paté e una bottiglia di Vulcaia Aprés
Ragazzi che settimana del cavolo: problemi alla schiena, un po’ di tristezza portata dalle giornate invernali, una congiuntivite di mia figlia che le ha procurato degli occhi da pugile… Insomma, era uno di quei giorni in cui sarei voluto essere qualcun altro, invece mi trovavo in cucina a preparare un paté di fegatini. Era il momento di sfumare con del vino dolce. La ricetta richiedeva del Vinsanto toscano, ma non io non la ho seguita alla lettera, per due ragioni: la prima è che mi dispiaceva aprire una gran bottiglia per cucinare, e in casa di Vinsanto avevo solo una bottiglia dell’azienda Frascole del 1995: da sogno. La seconda ragione è che comunque avevo in casa alcune bottiglie di vino dolce sulle quali non mi sarei sentito di garantire la tenuta e la bevibilità, quindi ho deciso di dare la precedenza ad una di quelle. Vulcaia Aprés Ho deciso per una bottiglia di Vulcaia Aprés 1997 dell’azienda Inama, un vino ottenuto da uve passite di Sauvignon Blanc. Ne acquistai 12 bottiglie credo nel 2000 e qualcuna ancora me la porto dietro da allora attraverso i miei molteplici traslochi.
Stavano in una cassa di legno in fondo al locale che ho adibito a cantina: un ripostiglio sotto le scale che è sempre bello fresco, anche d’estate. Con fatica arrivo alla cassa e prelevo una delle bottiglie da 375 ml. Attraverso il vetro incolore della bottiglia, il colore del vino mi sembrava più scuro di come me lo ricordassi. “Una ragione in più per dedicarla al paté”, ho pensato, e ho messo mano al cavatappi. Il tappo è venuto via bene, integro e bagnato al punto giusto, ed il suo profumo era davvero invitante. “Forse non andrà tutto nel paté…”, e me ne verso due dita da assaggiare. Che sorpresa: il vino aveva tenuto abbastanza bene, ma una leggera ossidazione gli aveva cambiato i connotati in maniera interessante. Al naso (alla cieca) lo avrei preso per uno scherzo fattomi da un buontempone: un ipotetico mix di Marsala e di Tokaji Szaraz Szamorodni. Al palato poi, se mai mi fosse venuta in mente l’idea dello scherzo, avrei cambiato idea, perché il vino era piacevolmente dolce. Anche intenso, ma non particolarmente persistente, con aromi di tabacco e erbe aromatiche. Degustandolo ho sorriso e sono ritornato verso la cantina per continuare questa ottima “terapia”.
Salute!
di Andrea Sturniolo